31 Giornate Cardiologiche Torinesi
APPLICATIONS OF HYPNOTIC COMMUNICATION
AND HYPNOSIS IN CARDIOLOGY
Dal 1993 fino al giugno di quest’anno ho prestato servizio in qualità di psicologo presso una struttura riabilitativa per pazienti cardiologici e pneumologici.
La funzione dello psicologo in quel contesto aveva bisogno di uno sforzo comunicativo suppletivo per superare alcune ambiguità di fondo, presenti, a mio avviso ancora oggi.
La principale ambiguità che poteva depotenziare l’impatto clinico del mio agire era data da quella che io chiamo l’assetto motivazionale del paziente.
I possibili sentieri che potevano condurmi al cospetto di un paziente potevano riassumersi, grosso modo, nelle seguenti categorie:
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Il paziente viene segnalato dal personale curante (medici o fisioterapisti)
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I parenti chiedono ai curanti l’intervento dello psicologo
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Previo contatto, tramite presentazione del Servizio di Psicologia, il paziente chiede espressamente un primo colloquio, da cui potrà seguire uno specifico ed articolato percorso terapeutico.
Se facciamo un passo indietro e riconsideriamo il titolo di questa mia relazione, risulterà intuitivamente possibile considerare che fra le tre possibilità sopra elencate, solo la terza facilita un incontro in cui la persona si sentiva in grado di raccontare la propria storia senza il timore di sentirsi giudicato/etichettato o indirizzato verso una terapia psico-farmacologica (il famoso effetto Psi che fa in modo che la nostra professione venga scambiata con quella dello psichiatra).
Nei primi anni della mia esperienza sentirsi dire: “Non sono mica matto, io” era piuttosto frequente.
Per facilitare, quindi, l’incontro e poterlo indirizzare su binari clinicamente produttivi era usanza, da parte mia, contattare il paziente il secondo o terzo giorno dall’ingresso per presentargli il Servizio di Psicologia, comunicandogli la mia più ampia disponibilità all’ascolto e alla presa in carico.
Dal 2014 presi l’abitudine di caricare su un foglio excel i dati degli interventi.
743 pazienti (379 m e 364 F) entrarono in contatto con il Servizio di Psicologia.
Il numero di sedute richieste vanno da 1 seduta per 223 pazienti, fino a 15 sedute per 1 paziente.
Precisazioni metodologiche.
Il periodo di degenza medio era di circa 21 giorni.
Ne consegue che l’intervento psicologico doveva confrontarsi con una disponibilità logistica limitata, a fronte, a volte, di situazioni cliniche complesse, specialmente in quei casi dove l’impatto con l’evento chirurgico si inseriva in un quadro di manifesta pregressa vulnerabilità e sofferenza psicologica.
Ne consegue che bisognava interrogarsi su quali potessero essere le modalità di approccio clinico che garantissero buoni risultati entro tempistiche compresse.
C’è un falso paradigma nella nostra professione che recita più o meno così:
“Se vuoi ottenere profondi risultati, la terapia deve necessariamente essere lunga. Quanto più breve essa è, tanto più superficiali e instabili saranno i risultati ottenuti.”
Questa affermazionè, a mio avviso, risulta superata dall’avvento delle terapie focalizzate sul trauma di tipo Bottom-up, ovvero quelle terapie che prediligono un intervento focalizzato sui vissuti corporei (emozioni e/o sensazioni) che sono alla base della produzione sintomatologica.
Non è scopo di questo intervento addentrarmi sulle considerazioni teoriche che mi hanno portato a prediligere nel mio lavoro alcune procedure rispetto ad altre. Fatto sta che ho trovato particolarmente utile nel mio lavoro clinico tre metodologie di intervento:
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l’Ipnosi
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l’EMDR (Eye Movement Desensitation and Reprocessing)
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il Focusing di Eugene Gendlin
Il modello teorico che ispira l’intervento.
Tutti e tre questi approcci soddisfano i requisiti fondamentali per ottenere un cambiamento di tipo trasformativo, ovvero profondo e duraturo nel tempo. Questi passaggi sono stati identificati e codificati sin dal 2004 e sono alla base del paradigma conosciuto dai clinici come Memory Reconsolidation.
Questo paradigma afferma che alla base di un sintomo ci sia un apprendimento di tipo sub-corticale (limbico) che in determinate condizioni (attivazione di un trigger o innesco) attiva delle risposte comportamentali automatiche ed indipendenti dal controllo della sfera volontaria-razionale.
Ciò giustifica il senso di colpa e di egodistonia che tante volte pervade l’animo di una paziente allorquando il sintomo si sia già ampiamente manifestato.
Pensate a quelle persone che pur dovendo sottoporsi a procedure diagnostiche minimamente invasive, le rifuggono o manifestano reazioni emotive talmente intense da impedirne l’esecuzione.
Una volta si parlava di pazienti scarsamente collaborativi adesso preferiamo chiederci come possiamo aiutarli prima di colpevolizzarli inutilmente.
Il paradigma della Memory Reconsolidation ci permette di superare l’antico monito di Le Doux secondo cui un apprendimento di tipo Pavloviano o condizionamento classico, una volta instauratosi non era più soggetto ad estinzione, ma poteva, tuttalpiù essere soggetto a ricondizionamento.
Per fortuna le cose non stanno più così.
Il modello che la Memory Reconsolidation ci propone, ci impegna, come clinici ad una forma di coerenza per cui:
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risulta necessario riattivare il circuito sub corticale primigenio (indipendentemente da quanto sia antico)
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questa attivazione apre una finestra di labilità del circuito per cui esso è plasmaticamente portato ad essere modificato (la metafora che preferisco è quella del fabbro che per poter modificare la forma del materiale su cui lavora, deve necessariamente portarlo al punto di fusione)
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ciò è necessario ma non sufficiente; durante la riattivazione della memoria originaria, occorre agire con l’intento di far vivere contemporaneamente al paziente una esperienza in grado di contraddire la credenza emotiva rappresentata dal trauma originale (esperienza di mismatch)
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questa esperienza fornirà l’informazione in grado di aggiornare il circuito eliminando ogni automatismo emotivo-comportamentale che originariamente costituiva l’unica risposta (per quanto dolorosa e disfunzionale) con cui il paziente poteva gestire una situazione potenzialmente ritraumatizzante.
Mi scuso per la sintesi, ma mi dichiaro disponibile per eventuali approfondimenti in sede di discussione finale.
Torniamo di nuovo al titolo che mi è stato proposto e riconsideriamolo all’interno di questo paradigma:
Storie raccontate dai pazienti…
Quanto più un paziente è in grado di proporre una storia da raccontare e quanto più questa storia appare coerente ed integrata, tanto più il nostro intervento clinico risulterà improntato all’ascolto empatico e non giudicante.
Ma che dire di quelle situazioni dove l’accesso al ricordo (precondizione per qualsiasi racconto) risulti frammentario, sconnesso, palesemente doloroso? Ragion per cui proseguire per questa strada significherebbe ritraumatizzare il paziente?
A questo punto l’indicazione clinica è palese: i circuiti della narrazione non possono essere utilizzati, il paziente è sopraffatto dalle componenti sub corticali di tipo limbico. L’amigdala prende in automatico il sopravvento e la componente emotiva si caratterizza o per la sua iperattivazione (iper arousal o per la sua repentina disattivazione (ipo arousal con conseguente risposta vagale caratterizzata da bradicardia e perdita di coscienza).
E’ a questo punto che l’approccio bottom-up ci viene in aiuto.
A fronte di uno stile narrativo incoerente, se non proprio affabulatorio, siamo chiamati a privilegiare quella che io definisco la messa in sicurezza del paziente.
Tecniche di comunicazione ipnotica, esercizi di Immaginazione Guidata, qualsiasi cosa che parta dalla reale ed attuale esperienza psicofisiologica del paziente, ci permetterà di ricondurlo all’interno della finestra di attivazione ottimale dello stress.
Già questa esperienza costituisce il più delle volte una esperienza che contraddice l’antico amndato protettivo:
non puoi ricordare, troppo dolore
se prima di ricordare mi sento al sicuro, allora lo stesso ricordo è accessibile e se è accessibile, potrebbe essere modificabile.
Questo ci porta alla parte finale del titolo:
Ricostruzione della esperienza.
Ricostruzione dell’esperienza significa nuova narrazione. Una narrazione in cui passato e presente si fondono. Una narrazione in cui il passato non è un cane che ci morde il calcagno, un peso che ci impedisce il cammino.
Adesso il passato ci appare per quello che è: una esperienza da cui emerge una nuova verità molto ben espressa dalle parole di una canzone di Siouxie (da giovane mi piaceva la musica dark, e siccome mi sento ancora giovane… la posso citare)
If it doesn’t kill you
It will shape you
If it doesn’t break you
It will make you
Grazie per la cortese attenzione.